MssCol 603/Lettera 145

Sottounità / Unità archivistica
NYPL, Ms. Div., MssCol 603, Registro sesto
Regesto veloce

Commendone discute e commenta le scritture sulle condizioni del clero in Polonia consegnate a Roma dall’agente di Jakub Uchański, arcivescovo di Gnesna.

Numero documento
145
Estensione materiale
cc. 8r-17r
Destinatario
Borromeo, Carlo
Luogo di redazione
Petricovia
Luogo di ricezione
Roma
Data di redazione
9 maggio 1565
Edizioni del documento

Pubblicata in Uchańsciana czly zbiór dokumentów wyjaśniających życie i działność Jakuba Uchańskiego, ed. T. Wierzbowski,  Warszawa, J. Berger, 1884-1892, II, pp. 172-183; in Pamiętniki o dawnéj Polsce z czasóv Zygmunta Augusta, obejmujące listy Jana Franciszka Commendoni do Karola Borromeusza, coll. J. Albertrandi, II, Wilno, Drukiem Józefa Zawadzkiego, 1851, pp. 219-236 (in traduzione polacca); in Elementa ad fontium editiones, 59/II: Documenta ex Archivo Cardinalis Ioannis Morone ad Poloniam spectantia quae in Archivo Secreto et in Bibliotheca Vaticana asservantur (1539–1579), ed. C. Lanckorońska, Romae, 1984, pp. 28-36.

Regesto approfondito

Commendone fornisce – come richiesto - il suo parere sulle due scritture presentate a Roma da Józef Zamoyski, agente di Jakub Uchański, arcivescovo di Gnesna; Commendone ritiene che esse confermino, quanto egli stesso ha già scritto riguardo ai progetti dell’arcivescovo.

Nella prima scrittura l’arcivescovo individua quattordici «gravami» del clero, sottolinea l’inefficacia degli interventi messi in atto fino ad ora per rimediarvi ed espone le sue proposte in merito, precisando che Commendone e Stanislao Hosius, vescovo di Varmia non le approvano.

Il primo riguarda la mancata esecuzione, da parte degli starosti, delle sentenze pronunciate nel foro ecclesiastico. Già la Dieta di Petricovia del 1563 aveva dichiarato l’impossibilità di procedere contro un nobile se non a seguito di sentenza emessa da giudici competenti. Prima della venuta di Commendone gli ecclesiastici avevano tanto lamentato che tale costituzione toglieva loro ogni giurisdizione, che «confessorno quasi essi medesimi di non esser giudici competenti nelle cause le quali, non solo per gli sacri canoni ma per gli statuti di questo Regno, precisamente son dichiarate esser ecclesiastiche». Arrivato nel Regno ed esaminati gli statuti, Commendone ha fatto in modo che il re interpretasse «le parole di questa costitutione a favor degl’ecclesiastici», o che almeno il clero continuasse a esercitare la propria giurisdizione, ritenendo più opportuno mostrare che essa non pregiudicava gli ecclesiastici piuttosto che contestarla. Si sono quindi avute più sentenze a favore degli ecclesiastici, che hanno «tolta […] forza» alla costituzione «col fatto e con l’uso». Poi però l’arcivescovo, durante la Dieta, ha citato uno starosta che si era rifiutato di eseguire una sentenza in materia di decime ecclesiastiche emessa da giudici laici a favore del capitolo di Gnesna contro alcuni nobili. Il caso ha provocato scalpore anche tra i cattolici, «vedendo che il clero, non cura in effetto altro che le decime». Commendone ritiene che gli ecclesiastici dovrebbero curarsi soprattutto di riguadagnare la giurisdizione, che darebbe loro reputazione e consentirebbe di conseguenza il recupero delle stesse decime.

Nel secondo punto l’arcivescovo lamenta che il decreto di Petricovia impedisce di citare un nobile davanti al foro ecclesiastico. Ma ciò non figura nel decreto e Commendone ricorda che i vescovi stessi, nella Dieta di Varsavia, avevano sospeso la loro giurisdizione «contra hereticos» e che non l’«hanno poi più essercitata, se non nelle decime».

Commendone conferma invece il terzo «gravame», cioè che gli scomunicati avevano facoltà di «comparere in iuditio et ius etiam dicere». La presenza di castellani e palatini eretici in Senato fa sì che si tolleri la comparizione in giudizio di scomunicati anche per colpe minori. Alla base di tale «disordine» sta l’abuso, «che qui frequentemente s’usava, in scommunicar ciaschuno per legerissime cagioni», che ha spinto Commendone a non «usar le scommuniche in cause pecuniarie» e a raccomandare ai vescovi di far altrettanto.

Nel quarto punto l’arcivescovo deplora la pratica di rimettere le cause tra laici ed ecclesiastici «nelli palatinati a particolari iudici» anziché, come in passato, affidarle alla Dieta generale. Ciò, spiega Commendone, è avvenuto pro una vice tantum nella Dieta di Petricovia del 1563, per la mole di cause accumulatesi durante la lunga assenza del sovrano, e non costituisce «gravame», essendo state le sentenze tutte a favore degli ecclesiastici. Il clero potrebbe invece deplorare che i vescovi, «principali giudici in questi giuditii», non si presentino nelle Diete per evitare le spese.

Il quinto «gravame» attiene alle «cause spirituali […] sempre rimesse di Dieta in Dieta», ma il rinvio è comune a tutte le cause: l’unione con la Lituania e la restituzione dei beni regi occupano le discussioni nelle Diete, che si «consumano» senza prendere risoluzioni.

Il sesto concerne la richiesta agli ecclesiastici di esibire i loro titoli e privilegi, spesso perduti. Commendone si è battuto con successo per respingere questa pretesa nelle Diete di Varsavia e di Petricovia.

Il settimo riguarda l’obbligo imposto al clero di pagare una contribuzione per la guerra, che i vescovi – contro il consiglio di Commendone – non avevano voluto concedere spontaneamente. Si è poi fatto in modo che tale contribuzione non diventasse perpetua.

Nell’ottavo punto l’arcivescovo lamenta la mancata ammissione in Senato delle proteste degli ecclesiastici. Dopo che ciò era avvenuto a Petricovia, Commendone ha ottenuto che tali proteste vengano ammesse e sta cercando di ottenere sul punto un espresso impegno del re.

Il nono e il tredicesimo punto toccano le profanazioni di chiese e l’allontanamento da queste dei preti cattolici. Commendone conferma che si è particolarmente adoperato con il re per questi casi, che sono stati però a lungo ignorati dal clero, che a volte «per un palmo di terreno et di giurisditione temporale» ha «preso l’armi contra i più potenti signori del Regno». Avvertito pochi giorni fa da Walenty Herburt, vescovo di Presmilia, che una chiesa della sua diocesi era stata profanata dal «signore di un castello di Rossia», Commendone ha ottenuto dal re un ordine di restituzione al vescovo.

Al decimo punto l’arcivescovo denuncia che il nome della Trinità sia stato tolto dalle formule del giuramento in giudizio. È possibile che alcuni giudici dei palatinati, aderenti ai «trinitari», lo abbiano fatto, ma nel Senato si mantiene «la forma antica», «et convien che ciascuno, per heretico che sia, giuri conscriptis verbis».

L’undicesimo concerne «l’instigatore de spirituali» ovvero il fiscale presente un tempo in ogni diocesi: l’arcivescovo ne ha nominato due anni fa uno generale che è entrato in conflitto con quello regio, provocando una serie di capitali inimicizie.

Nel dodicesimo «gravame» l’arcivescovo protesta per le cariche assegnate agli eretici. Commendone ne discute a ogni udienza con il sovrano, il quale fa presente che spesso sono gli stessi vescovi a favorire gli eretici. Un «gran prelato» ha detto a Hosius che a volte i magistrati eretici facevano pagare le decime meglio dei cattolici. «Ogni cosa misurano [i vescovi] con queste benedette decime».

Al quattordicesimo punto, dove l’arcivescovo lamenta il tentativo di occupare le abbazie e di requisirne i beni per la guerra promosso nella Dieta di Parzow, Commendone ricorda che è riuscito a sventarlo, allora e di nuovo nella Dieta presente.

L’arcivescovo sostiene inoltre che le costituzioni in pregiudizio del clero risultano confermate e che le richieste di correzione hanno dato luogo a nuovi «decreti contrarii». «Il che è appunto la vera narratione non pur del passato, ma di questo ultimo successo della presente Dieta, causato dall’arcivescovo stesso et scritto costì da me ch’ei facesse succedere».

L’arcivescovo afferma anche che non si potrà sperare in miglioramenti se la Sede apostolica non adotterà un atteggiamento più duro nei confronti del sovrano, linea che Commendone sa non essere approvata da Pio IV.

L’arcivescovo propone di arrivare presto a una «concordia» attraverso la celebrazione di un sinodo, cui parteciperebbero gli eretici i vescovi e il clero, oltre a un gran numero di uomini «dotti, che vole et promette di haverci». Il sinodo, che permetterebbe di superare le dilazioni del re, dovrebbe essere convocato «per decretum Sedis Apostolicae», con la delega all’arcivescovo di piena autorità.

Commendone ritiene tali mezzi perniciosi e non mirati all’unità della Chiesa bensì a unire tutti «contra di noi, i quali non habbiamo maggior diffesa che le discordie loro». Il proposito di convocare gli eretici è tanto più pericoloso in quanto – come lo stesso arcivescovo lamenta nel secondo «gravame», «non obbedendo gli heretici alla citatione, si verrebbe ad invilire et estinguere affatto l’autorità della Chiesa», a meno che «Sua Signoria non havesse qualche certezza o secreta promessa da loro che siano per venerci voluntariamente», di che si ha giustamente non poco sospetto. Giudicare gli eretici in contumacia è inutile perché sono già stati condannati al concilio di Trento; né vi è necessità di emettere nuove sentenze in un concilio provinciale, che gli stessi eretici non stimeranno più di un concilio universale.

Essi si sono più volte detti pronti a sottomettersi al giudizio del sovrano e del Senato, ma hanno dichiarato in Senato di non riconoscere alcun «giudice competente in terra nella causa della religione et che vogliono piuttosto perder la vita che mutar la lor fede». La loro convocazione al sinodo produrrebbe maggiori disordini, perché implicherebbe il consenso dei cattolici ad ascoltarli, cosa inammissibile in un sinodo provinciale, tanto più dopo la conclusione di un concilio universale; del tutto improbabile poi che gli eretici, con la forza che hanno nel Regno, stiano ad ascoltare e approvino le sentenze contro di loro.

«Persuaderli et pertrahere illos ad unitatem, quando già si fossero condotti insieme ad una tal synodo», sarà cosa impossibile, come si è visto «nelli colloquii di Germania, nel convento di Poisì et altrove». «Assai faticha s’ha a convertir alcuno di costoro da solo a solo et ben spesso avvienne che di quei pochi ancora, i quali restano persuasi dalla verità, si trovano alcuni che, per vergogna d’esser riputati leggieri, vanno dissimulando il loro ritorno alla Chiesa. Non con dispute né con publici congressi, ma con privati ragionamenti et con prediche fatte con spirito et charità, et con il buon essempio si possono sperar di guadagnar dell’anime et molto più se si facessero delle schole».

Fare concessioni agli eretici, oltre a essere pericoloso, non compete a un concilio provinciale; l’arcivescovo poi avrebbe dovuto chiedere apertamente, e non «in enigmate», il giudizio della Sede apostolica.

La richiesta dell’arcivescovo di avere dal papa facoltà di convocare il concilio è incongrua se si tratta di un concilio provinciale, mentre se «vuol far più che provinciale, non è conveniente il dimandarlo, né sicuro il concederlo». Qualora Uchański voglia, con tale richiesta, dare al sinodo maggiore dignità ne ricaverebbe solo danno perché «essercitar estraordinariamente la podestà di Nostro Signore nelle provincie inferme suole involver di mali humori et accrescer troppo l’odio che s’ha contra la Sede Apostolica». Né è credibile che egli voglia per tale via metter fine – come scrive – alle indecisioni del sovrano, che finirebbe così per inimicarsi. Tutte queste manovre spingeranno il re a stringersi agli avversari e allo stesso arcivescovo, aiutandolo a «colorire i suoi antichi dissegni». Il primo è quello di indire un concilio nazionale, che risulta chiaro dove scrive di voler convocare al sinodo gli eretici e di voler giungere a una concordia, «cioè mistura di religione secondo gli suoi humori».

In secondo luogo, l’arcivescovo mira a mettere in odio la Chiesa e il papa. Si sa che a suo tempo suggeriva al precedente arcivescovo di «pigliarsi una libera podestà» dal pontefice e di non riconoscere quella della Sede Apostolica, «il che tentò anco di fare quando da Nostro Signore appellò pubblicamente alla Dieta del Regno della qual sua appellatione io ho una copia in mano».

Il terzo suo disegno è di «travagliar il re», per ottenerne vantaggi personali.

Ad accrescere i sospetti di Commendone sono infine i tentativi dell’arcivescovo di screditare il cardinale Hosius, che taccia come temporeggiatore e ignaro dei problemi del Regno.

Ritenendo in ogni caso necessario tener legato l’arcivescovo, Commendone giudica opportuno rispondere a voce alla scrittura, comunicando all’agente dell’arcivescovo a Roma che il papa apprezza lo zelo mostrato da Uchański, ma che rimane sospeso di fronte all’intenzione da lui espressa di convocare gli eretici al sinodo provinciale, dopo che Commendone e Hosius, avevano fornito diverse informazioni sul suo conto. L’arcivescovo andrà sollecitato a esprimere chiaramente la sua posizione e a considerare l’opinione dei vescovi prima di prendere qualsiasi decisione sul concilio. I prelati non sembrano infatti disposti ad accettare un sinodo con la presenza degli eretici.

Nella seconda scrittura l’arcivescovo mostra di credere che gli eretici stiano per convocare un concilio e chiede istruzioni su come egli stesso e gli altri prelati dovranno comportarsi, a difesa della Chiesa, dei cattolici e dei beni ecclesiastici. Commendone fa notare che la richiesta avrebbe un senso se fosse stato il re a indire il concilio ma, essendo questa iniziativa degli eretici, compito dei cattolici è solo «d’impedirlo o di starsi». La risposta a questa scrittura si potrà differire, in attesa della risposta dell’arcivescovo alle comunicazioni fatte al suo agente. In ogni caso si potrà replicare i cattolici non dovranno partecipare al concilio: la loro presenza significherebbe «approbare la giurisdittione degli heretici», oltre al fatto che i cattolici malfermi nella fede potrebbero abbandonare la Chiesa e seguire le determinazioni degli eretici «in presentia di prelati o persuasi, o convinti». Data la «tanta diversità di dottrine», c’era comunque da aspettarsi che, come dagli altri loro «conciliabuli», anche da questo emergessero maggiori «confusioni et discordie tra le medesime sette». Compito dell’arcivescovo sarà solo d’impedire che il sovrano dia agli eretici un luogo per riunirsi e di amministrare per il resto «con la dottrina et con l’essempio la provincia sua gnesnense».

Il concilio riunito dagli eretici a Petricovia, come Commendone ha già scritto, si è ridotto a «un colloquio secreto d’alcuni di questi loro ministri, tanti per setta», dal quale sono usciti più disuniti che mai «scomunicandosi l’un l’altro». Ora si potrebbe sospettare che l’arcivescovo cerchi di ottenere quel concilio nazionale che desidera più d’ogni altra cosa e che non è riuscito ad avere per altre vie. «Non che altro è da temere che, impetrando l’arcivescovo alla Sede Apostolica un tal ordine, faccia succedere a studio questa adunanza de’ heretici, nel quale caso in sin da hora dimanda consiglio a Sua Beatitudine».

Note libere

Sotto la data cronica: «Petrig [Petricovia], et fu mandata con la di 10 giugno». Cancellature e postille marginali rendono, in più parti, il testo quasi illeggibile.

Luoghi rilevanti
Varsavia
Parzow
Poissy